Le onde gravitazionali – parte 2

Seconda parte della tesina del mio esame di maturità (luglio 1999), riguardante questa strana cosa che sono le onde gravitazionali.

Leggi qui la prima parte dell’articolo

La prima conferma

A tutt’oggi, nonostante non sia ancora stata trovata una conferma diretta dell’esistenza delle onde gravitazionali (AGGIORNAMENTO: CONFERMA DIRETTA TROVATA NEL 2015!), i ricercatori si appoggiano ad una solida prova indiretta dei loro effetti. Tale prova è stata fornita dall’osservazione di un sistema di tipo pulsar binario, formato da una pulsar radio-emittente e da una stella di neutroni. Quest’oggetto è denominato PSR 1913+16; la sigla indica che il pulsar binario occupa nelle carte astronomiche del cielo la posizione individuata da ascensione retta 19 ore e 13 minuti e da declinazione +16 gradi, che lo localizza nella costellazione dell’Aquila.

I pulsar sono stelle piccolissime, in rapida rotazione ed estremamente dense, composte principalmente da neutroni; riguardo la loro origine si pensa che siano i resti di esplosioni di supernova. Queste stelle di neutroni in rotazione emettono un fascio radio altamente direzionale che spazza il cielo una sola volta per ogni rotazione della stella. Un osservatore riceve un impulso di radioonde ogni volta che il fascio radio della stella è diretto verso la Terra.

Sia il pulsar che la sua silenziosa compagna sono più massivi del sole e viaggiano a velocità vicine ai 400 km/s in orbite ravvicinate, ad una distanza minima circa uguale al raggio del Sole. Tali circostanze rendono il sistema del pulsar binario un laboratorio ideale per studi su campi gravitazionali intensi.

Anche se esistono altri sistemi binari stellari in orbite ravvicinate, è la presenza di un pulsar in questo particolare sistema che rende possibile una potente verifica dei fenomeni gravitazionali. Un pulsar è particolarmente adatto perché la frequenza di ripetizione degli impulsi è così esattamente stabile da farlo assomigliare ad un “orologio” di alta precisione. Misurando accuratamente i tempi di arrivo degli impulsi sulla Terra, si può impiegare la scansione temporale del pulsar per sondare finissimi effetti gravitazionali con una precisione che non è possibile in nessun altro sistema conosciuto.

Le misurazioni degli impulsi provenienti da PSR 1913+16, eseguite dal 1974, mostrano che il sistema sta perdendo energia orbitale ad un tasso prossimo a quello che ci si aspetta dalla radiazione gravitazionale. Le osservazioni hanno fornito perciò la prima prova determinante dell’esistenza delle onde gravitazionali, oltre ad un’ulteriore conferma della validità della relatività generale.

Gli scienziati, nel corso dell’osservazione del pulsar binario, sono giunti a descrivere la probabile storia del sistema. Il sistema nacque come una coppia di stelle ordinarie. Una delle due, molto più massiva dell’altra, terminò la sua riserva di combustibile nucleare molto prima dell’altra e collassò diventando un oggetto di diametro di una decina di chilometri ed i suoi strati esterni culminarono in una esplosione di supernova. Come resto dell’esplosione rimase una stella di neutroni in rotazione. La stella compagna continuò la sua evoluzione, espandendosi, fino a che parte della sua materia venne attratta sulla superficie della stella di neutroni e riscaldata per attrito; gli strati esterni della stella, per l’aumento della temperatura, venivano espulsi nello spazio lasciandosi indietro una stella con nucleo di elio in rotazione rispetto alla pulsar in orbite molto ravvicinate. Alla fine la stella esplose come una seconda supernova lasciando come resto una seconda stella di neutroni.

Oggi, alla nostra osservazione si presenta la prima stella come un pulsar, mentre la seconda può o meno emettere radioonde: se lo fa, esse non sono rivolte verso il sistema solare. L’attuale orbita altamente eccentrica costituisce una prova del fatto che la seconda esplosione ha quasi distrutto il sistema. Pare che la maggior parte dei sistemi normali di stelle multiple vengano spazzati via quando un membro esplode come supernova, il che spiega la scarsità di pulsar rilevata nei sistemi binari.

La fonte di energia per la radiazione gravitazionale emessa dal pulsar è l’energia del moto orbitale. Perciò, se le onde gravitazionali esistono e trasportano energia lontano dal sistema, l’energia orbitale dovrebbe gradualmente diminuire, facendo spiraleggiare il pulsar e la sua compagna sempre più vicini l’uno all’altra e facendo diminuire il periodo orbitale. Dalle equazioni della relatività generale si può ricavare l’intensità della radiazione gravitazionale prevista; di conseguenza è possibile sapere l’esatto tasso di contrazione dell’orbita e la diminuzione del periodo orbitale.

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Dopo sei anni di misurazioni (dal 1974 al 1980) un gruppo di ricercatori, guidato da Joseph Taylor, Joel Weisberg e Lee Fowler, ha scoperto che il pulsar binario sta realmente “anticipando” sulla sua orbita e che la sua accelerazione si sta comportando esattamente come previsto dalla relatività generale: nella figura 3 sono confrontate la curva della prevista deviazione teorica (in nero) e la deviazione rilevata sperimentalmente (punti in grigio), nell’arco di tempo che va dal 1974 al 1982.

Inoltre, la velocità di diminuzione del periodo orbitale non è in accordo con le previsioni di numerose altre moderne teorie gravitazionali che sono state proposte in alternativa alla teoria di Einstein. Anche se le onde per se stesse rimangono elusive e non ancora rilevate, la loro “firma” è scritta a chiare lettere nel comportamento orbitale di PSR 1913+16; l’esperimento condotto sul pulsar binario dovrebbe incoraggiare i ricercatori che stanno mettendo a punto esperimenti sulle onde gravitazionali: pare accertato che ciò di cui essi sono alla ricerca esista veramente.

Storia della ricerca delle onde gravitazionali (fino al 1999)

Al fine di rilevare i segnali così estremamente deboli del passaggio delle onde gravitazionali, a partire dagli anni sessanta sono stati compiuti molti esperimenti, nella maggior parte dei quali era usata come rivelatore una massiccia barra di metallo. Si supponeva infatti che le onde gravitazionali fossero in grado di eccitare vibrazioni interne in un solido elastico; quindi, nel caso in cui la frequenza acustica naturale del solido coincidesse con la frequenza delle onde, si avrebbe avuta una risposta in risonanza. Il centro di massa di un tale rivelatore sarebbe stato da considerare in caduta libera sotto l’azione dell’onda, mentre le altre parti avrebbero subìto lievissimi spostamenti rispetto al centro di massa, instaurando vibrazioni interne al solido.

I ricercatori sapevano anche che la sensibilità di un rivelatore di onde gravitazionali è proporzionale sia alla sua massa che alle sue dimensioni. La più grande massa solida che avrebbero potuto usare come rivelatore sarebbe stata la Terra stessa; sfortunatamente era (ed è attualmente) difficilissimo distinguere le eventuali vibrazioni dovute ad onde gravitazionali rispetto all’alto “rumore di fondo” di vibrazione del pianeta, provocato da perturbazioni sismiche e meteorologiche. Si pensò allora alla Luna che, a causa dell’assenza di fenomeni sismici e di atmosfera, era considerato un luogo dall’ottima protezione nei confronti delle perturbazioni esterne; purtroppo, i costi da sostenere per impiantare strumenti di misurazione sul satellite erano e sono tuttora ritenuti eccessivi.

Per mezzo di conduttori cilindrici

I tentativi furono quindi limitati fin dall’inizio a rivelatori aventi una massa di poche tonnellate, tali da poter essere isolati efficacemente dalle perturbazioni dell’ambiente. Tali masse possiedono una frequenza di eccitazione di alcuni kilohertz, corrispondente alla frequenza di emissione di una stella prossima al collasso gravitazionale. Il primo rivelatore di onde gravitazionali fu costruito nel 1957 dallo scienziato Joseph Weber, dell’università del Maryland; i suoi maggiori risultati furono ottenuti alla fine degli anni sessanta, quando il ricercatore americano allestì una serie di rivelatori uguali collegati tra di loro e posti in luoghi molto distanti.

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Gli strumenti, simili a quello mostrato in figura 4, erano dei cilindri di alluminio di circa 1 metro di diametro, erano lunghi circa 2 metri; il loro asse era parallelo alla superficie terrestre ed orientato secondo la direzione est-ovest. La scelta di usare molti strumenti a grande distanza tra loro era un tentativo di rispondere al problema delle perturbazioni dell’ambiente circostante: gli strumenti erano collegati ad un rilevatore che prendeva nota solamente dei segnali che tutti gli apparecchi inviavano simultaneamente, in modo che le perturbazioni locali, dovute all’ambiente, fossero distinguibili da quelle comuni a tutti gli strumenti.

Weber sapeva comunque che la validità di questo procedimento poteva comunque essere minata da una quantità di coincidenze “casuali” dovute ancora una volta all’ambiente; per capire l’entità percentuale di queste rivelazioni-fantasma la sua idea fu di inserire un ritardo di tempo nell’invio del segnale di rilevazione in uno dei dispositivi: tutte le coincidenze che fossero state segnalate nonostante lo spostamento temporale di un segnale, sarebbero state da considerarsi casuali ed estranee al fenomeno delle onde gravitazionali. Il rapporto tra il numero totale di coincidenze ed il numero di coincidenze casuali avrebbe dato una stima dell’affidabilità dell’apparato sperimentale.

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Alla fine dell’esperimento, Weber rappresentò i risultati seguendo due diverse modalità, per capire se l’eventuale rivelazione di onde fosse riferibile ad una sorgente all’interno del sistema solare o al di fuori di esso; in un primo grafico (figura 5), in cui era descritta l’intensità delle coincidenze in funzione del tempo solare, non era riscontrabile alcun segnale; in un secondo grafico (figura 6), in cui la suddivisione delle coincidenze era ripartita in base al tempo sidereo, era rilevabile una leggera anisotropia delle coincidenze, cioè una dipendenza dell’intensità delle onde dalla direzione: in particolare Weber osservò che il massimo d’intensità era in direzione del centro della Galassia. Questa osservazione avrebbe confermato l’idea che l’intera Galassia fosse in rotazione intorno ad un enorme buco nero. In realtà i risultati di Weber rappresentarono il primo di una serie di buchi nell’acqua, dovuti soprattutto alla debolezza dell’apparato teorico a sostegno della teoria delle onde gravitazionali. La ricerca continua di una stima più precisa dell’entità reale della perturbazione di un’onda a contatto con la materia ha portato più volte a ricalcolare il valore dell’intensità di tali onde. Quindi, nonostante l’entusiasmo di Weber, i segnali rilevati furono considerati come dovuti a cause esterne, in quanto la sensibilità degli strumenti non era ritenuta sufficiente per rilevare il passaggio di un’onda gravitazionale.

I primi esperimenti di Weber ebbero comunque una loro relativa importanza. Grazie ad essi si scoprì che la sensibilità dei rivelatori dipende anche dalla direzione dell’onda incidente: essa è massima per un’onda che arriva perpendicolarmente all’asse del cilindro e si riduce progressivamente con la diminuzione dell’angolo tra l’asse e l’onda; un’onda con direzione parallela all’asse del cilindro non sarebbe in pratica rilevata dallo strumento.

Per migliorare le condizioni di rilevazione, negli anni successivi, i rivelatori cilindrici risonanti sono stati grandemente perfezionati: le varie tecniche includono il raffreddamento a temperature bassissime per ridurne le fluttuazioni termiche spontanee e la dotazione di amplificatori estremamente sensibili, che impiegano dispositivi superconduttori basati su effetti quantistici. Negli ultimi anni, poi, si è raggiunto l’obiettivo di mantenere questi nuovi rivelatori in funzione per lunghi periodi di tempo, raccogliendo dati la cui analisi è tuttora in corso.

Per mezzo di conduttori sferici

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Successivamente è stata presa in considerazione un’idea avanzata parecchi anni fa dallo statunitense Robert Torward, idea che permette sia di aumentare notevolmente la massa del rivelatore (a parità di frequenza di risonanza), sia di rendere la sensibilità indipendente dalla direzione di provenienza dei segnali. Si tratta di usare come rivelatore una massa sferica (figura 7), che può essere messa in vibrazione da onde con qualsiasi direzione di provenienza.

Una sfera ha infatti cinque modi di vibrazione che interagiscono fortemente con l’onda gravitazionale, contro uno solo del cilindro. Ognuno di questi modi può essere pensato come un’antenna orientate verso una diversa direzione e polarizzazione dell’onda, dando come risultato un rivelatore omnidirezionale.

Con una sfera di alluminio di tre metri di diametro, invece di un cilindro della stessa lunghezza, la massa sensibile si porta da 2 a 40 tonnellate. La sensibilità media complessiva, tenendo conto sia della maggiore massa sia del maggior numero di modi, sarebbe migliorata di circa 70 volte rispetto ad un rivelatore cilindrico. Presso l’università della Louisiana è in corso la realizzazione di un grande rivelatore a forma di icosaedro tronco (la forma del pallone da calcio); questa scelta è stata preferita a quella di un rivelatore sferico in quanto l’uso delle proprietà di simmetria dei poliedri regolari (tra cui l’icosaedro tronco) rende più semplice la ricostruzione della direzione dell’onda.

Per mezzo di interferometri

Fin dall’inizio degli anni settanta era stato anche proposto e sperimentato l’impiego di rivelatori interferometrici, basati su un dispositivo simile a quello usato da Michelson e Morley nel 1886 per determinare l’indipendenza della velocità della luce dal sistema di riferimento. Purtroppo anche gli interferometri risentono di un grande problema dei rivelatori metallici: è previsto infatti che la sensibilità degli strumenti è ottimale solo nella ricezione di onde perpendicolari al piano d’osservazione, mentre è minore se le onde ed il piano di ricezione formano un angolo acuto, fino ad azzerarsi se le onde arrivano parallele al piano. Le prospettive dei grandi rivelatori interferometrici sono comunque del massimo interesse.

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Il primo rivelatore di onde gravitazionali che sfruttasse fasci di luce fu costruito nel 1971 da Robert Forward e colleghi agli Hughes Research Laboratories. La versione moderna dell’apparecchio di Michelson consiste in un laser, un divisore di fascio, due specchi ed un fotorivelatore, disposti a croce (figura 8). Il fascio laser attraversa dapprima il divisore, che invia metà fascio allo specchio settentrionale e metà a quello orientale. I due specchi rinviano la luce lungo gli stessi percorsi al divisore, dove i fasci vengono ricombinati e inviati al rivelatore.

Ciò che viene misurato da quest’ultimo dipende dalla distanza tra il divisore di fascio e gli specchi. A certe distanze, quando le onde luminose escono dal divisore per dirigersi al rivelatore, le creste delle onde provenienti da nord sono in fase con quelle che vengono da est: di conseguenza le onde interferiscono costruttivamente aumentando l’intensità del fascio ricombinato che entra nel rivelatore. Ma se le distanze tra il divisore di fascio e ciascuno specchio variano di quantità pari a metà della lunghezza d’onda della radiazione, le creste del fascio proveniente da nord escono dal divisore insieme con i ventri dell’onda proveniente da est: le due onde si elidono e al rivelatore non arriva luce.

Per rivelare le onde gravitazionali gli specchi sono collocati in modo che le onde si elidano. Ma se l’interferometro viene attraversato da un’onda gravitazionale, le distanze tra i componenti subiscono un’esigua variazione: di conseguenza un po’ di luce arriva al rivelatore, che registra una variazione d’intensità luminosa proporzionale all’intensità dell’onda gravitazionale. Per stabilire la direzione di provenienza e la posizione in cielo della sorgente si dovrebbero costruire almeno tre rivelatori in luoghi molto distanti tra loro. Un vantaggio dei rivelatori interferometrici è che il loro tempo di reazione è proporzionale alla velocità della luce, mentre i componenti di un rivelatore a barra, cilindrico o sferico, hanno un tempo di reazione proporzionale alla velocità del suono.

Benché questi primi interferometri siano circa cento volte più sensibili delle barre di Weber, finora nessuno di essi ha fornito prove di un’onda gravitazionale. Attualmente si pensa che le stelle di neutroni binarie siano l’unico tipo di sorgente potenziale di onde gravitazionali la cui intensità possa essere prevista senza ambiguità e il cui numero possa essere valutato a partire da osservazioni astronomiche. Le onde generate da una stella di neutroni binaria distante 650 milioni di anni luce avrebbero un’intensità pari a h=4·10-22 ed avrebbero una frequenza doppia di quella con cui le due stelle si muovono a spirale l’una intorno all’altra.

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I teorici ritengono che la sorgente di onde gravitazionali più facile da scoprire dalla Terra sia una supernova, cioè l’esplosione di una stella di grande massa. Secondo le loro stime, ogni anno ci sono in tutto l’universo milioni di supernovae. Queste cifre danno la sicurezza che molte stelle possano esplodere in galassie relativamente vicine. Ma ciò non garantisce che le onde siano rivelabili. I critici hanno notato che non si conosce nei particolari la dinamica delle supernovae e che l’intensità delle onde gravitazionali prodotte da una supernova deve dipendere dall’asimmetria del collasso della stella.
La sensibilità può essere compromessa da parecchie fonti di rumore, originate sia da piccole variazioni di frequenza della luce laser, sia da deboli vibrazioni che fanno muovere gli specchi e gli altri componenti ottici. Aumentando la potenza del laser e la lunghezza del fascio (aumentando la distanza tra gli specchi) si possono ridurre alcune cause del disturbo, esaltandone però altre. Per aumentare la sensibilità dell’interferometro, il ricercatore Rainer Weiss lavorò su dispositivi in cui la luce laser rimbalza più volte fra due specchi lungo percorsi diversi; questo sistema, schematizzato in figura 9, è detto linea di ritardo ottica ed aumenta a tutti gli effetti la lunghezza dell’interferometro. Nel frattempo il fisico Ronald Drever allestì un progetto che utilizzava le cavità di Fabry-Perot. In questo sistema la luce laser rimbalza tra due specchi lungo lo stesso percorso (figura 10) e la potenza dell’interferometro ne risulta aumentata.

In seguito l’attenzione dei ricercatori fu catturata dall’idea di un rivelatore interferometrico di grandi dimensioni, che è sfociato nel 1986 nel progetto americano denominato LIGO (Laser Interferometer Gravitational-waves Observatory). Questo progetto, approvato solo nel 1990, prevede la costruzione negli Stati Uniti di due grandi rivelatori, ognuno dei quali produrrà intensi fasci laser che rimbalzeranno avanti e indietro su due percorsi lunghi quattro chilometri per poi interferire in un punto. Se l’apparecchio fosse attraversato da un’onda gravitazionale di intensità sufficiente, la distanza che i fasci luminosi devono percorrere subirebbe una lieve variazione e cambierebbero le modalità d’interferenza nei fasci. Se il gruppo del LIGO conseguirà i propri obiettivi e se le previsioni attuali sono attendibili, gli interferometri dovrebbero avere una sensibilità tale da rivelare le onde gravitazionali emesse dalla collisione di due stelle di neutroni. In tal caso il progetto potrebbe fornire entro il 2003 la prima conferma diretta dell’esistenza delle onde gravitazionali.

Realizzazioni e progetti italiani

Gli studiosi italiani partecipano in posizione avanzata alle ricerche per la rivelazione delle onde gravitazionali. Bruno Bertotti dell’Università di Pavia sta studiando da diversi anni la rivelazione di onde di bassissima frequenza, inaccessibili sia ai rivelatori interferometrici che alle barre risonanti, utilizzando l’effetto Doppler che queste onde provocano sui segnali radio che le sonde spaziali scambiano con le stazioni di terra.

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Ma l’attività nella quale l’Italia ha compiuto finora gli sforzi maggiori, col contributo dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), è quella che utilizza come rivelatori grandi cilindri di alluminio, secondo l’idea proposta inizialmente da Joseph Weber. Si tratta però di antenne notevolmente diverse da quelle impiegate in passato: per ridurre gli effetti dell’agitazione termica le nuove antenne vengono raffreddate con elio liquido e sono inoltre dotate di un migliore sistema elettronico di amplificazione dei segnali. Il gruppo delle università di Roma ha costruito nel 1990 a Ginevra l’antenna EXPLORER (figura 11), lunga tre metri ed avente una frequenza di risonanza di 900 hertz ed una sensibilità alle deformazioni inferiore ad h=10-18. Un’altra antenna criogenica (cioè raffreddata a basse temperature), denominata ALTAIR, operante alla frequenza di 1800 hertz, è stata costruita presso l’Istituto di Astrofisica del CNR di Frascati.

Il passo successivo verso una sensibilità ancora maggiore, è stato già avviato con la costruzione di due nuovi rivelatori: NAUTILUS, operante da qualche anno presso il Laboratorio nazionale di Frascati (INFN), ed AURIGA, presso il Laboratorio nazionale di Legnano (INFN). Queste antenne funzionano ad una temperatura di pochi centesimi di kelvin (un primato assoluto per masse di questa entità), grazie ad uno speciale refrigeratore. La sensibilità che si vuole raggiungere con questi rivelatori è h=10-21; in tal modo si dovrebbe riuscire a rivelare anche le supernovae che esplodono nell’ammasso della Vergine.

Un problema onnipresente per questi rivelatori resta la presenza di disturbi locali, che non consente di confermare inequivocabilmente la rivelazione di eventi gravitazionali, quando si disponga di un solo rivelatore. Per questo è necessario avere almeno due rivelatori in funzione: solo i segnali rivelati da entrambi esattamente allo stesso istante potranno essere presi in considerazione. Anche questa prospettiva è stata realizzata, poiché dal 1991 è in funzione in Louisiana un’antenna di dimensioni e prestazioni prossime a quelle di EXPLORER.

Adalberto Giazotto dell’Istituto nazionale di fisica nucleare di Pisa ha avviato da qualche tempo attività nel campo degli interferometri laser, cioè dei rivelatori basati sullo stesso principio usato nel progetto LIGO. Queste ricerche hanno già dato risultati molto significativi per quanto riguarda l’isolamento delle parti più sensibili del rivelatore rispetto al rumore ambientale. Il gruppo di Pisa ha avviato qualche anno fa una collaborazione con un gruppo di Parigi per realizzare un grande interferometro italo-francese (progetto VIRGO). Lo strumento sarà realizzato a Cascina (nei pressi di Pisa) e sarà dotato di bracci della lunghezza di tre kilometri e di una cavità di Fabry-Perot, al fine di amplificare la differenza di cammino ottico tra i due bracci. Le componenti ottiche di VIRGO saranno sospese a superattenuatori e la radiazione infrarossa prodotta verrà fatta viaggiare entro due tubi di acciaio al cui interno sarà mantenuto un vuoto estremamente spinto; in questo modo saranno evitate fluttuazioni della densità dell’aria, che potrebbero essere scambiate per un segnale di onde gravitazionali. La sensibilità e la larghezza di banda di VIRGO saranno tali da permettere di rivelare sia i segnali emessi da stelle di neutroni, sia un’esplosione di supernova nell’ammasso della Vergine. VIRGO farà parte, insieme al LIGO e ad altri rivelatori tedeschi e giapponesi, di una rete planetaria per la rivelazione contemporanea delle onde gravitazionali. Si potranno così ottenere informazioni sia sulla direzione da cui provengono i segnali, sia sulle caratteristiche fisiche delle sorgenti che li hanno emessi, e sancire così la nascita della branca dell’astronomia gravitazionale.

(AGGIORNAMENTO: CONFERMA DIRETTA TROVATA NEL 2015 ED ANNUNCIATA NEL FEBBRAIO 2016!)

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